2 aprile 2017 – Prima uscita con “quelli del CAI” sui Sentieri del Monte di Brianza
“Andare in montagna non è solo neve e dirupi, creste, torrenti, laghi, pascoli. La montagna è un modo di vivere la vita. Un passo davanti all’altro, silenzio, tempo e misura”.
(da Le otto montagne di Paolo Cognetti)
Domenica 2 aprile ci siamo ritrovati al parcheggio di viale Vittoria per la prima uscita stagionale del CAI giovanile.
È stato come quando si porta a casa un animale. Avete mai provato a tenere un cucciolo di cane? Lo stesso! Noi bambini che partecipavamo per la prima volta eravamo i cuccioli in questo caso. Gli accompagnatori, gli adulti, molti genitori erano la famiglia che ci accoglieva. Cercavamo di annusarci, soprattutto di conoscere gli altri cuccioli. Ogni tanto un’occhiata anche agli adulti, al papà o alla mamma, che sembrava non avessero problemi perché, riuniti in crocchi, ridevano di gusto tra di loro. Gli accompagnatori si davano da fare per mostrarsi simpatici, accoglienti e nello stesso tempo impartire delle regole che sono sempre fondamentali quando si sta in un gruppo. Alla conta ci siamo accorti, nonostante che il gruppo di persone con lo zaino in spalla sembrasse numeroso, che noi bambini eravamo in pochi. Non superavamo la ventina. È un peccato perché molti miei amici mi avevano confidato che sarebbero venuti, invece avranno preferito passare la domenica giocando con lo smartphone o ad annoiarsi in qualche centro commerciale, oppure si sono fatti impaurire da quella nuvola che promette una spruzzatina di pioggia a metà mattina. Peccato! In tanti sarebbe stato sicuramente più bello, ma forse ho capito che andare in montagna non è per tutti. È solo per i “duri”!
La prima uscita, come quando si intraprende qualsiasi attività sportiva non può essere pesantissima. Serve per farsi la gamba, per rompere il fiato. Questo è quello che ci hanno detto gli accompagnatori ed è anche la nostra speranza. Il percorso programmato tutto sommato è da definirsi facile. Avremmo scollinato sui sentieri del Monte di Brianza che, visto qui dal parcheggio è alto una spanna. Attraversiamo il paese a piedi, in fila indiana. I luoghi sono noti, sembra una scampagnata per un picnic. Dopo aver raggiunto la chiesetta del Lazzaretto, stando sul sentiero che costeggia le ultime case, alle pendici della collina, imbocchiamo la scalinata del Bosisolo che serpeggia fra le case in salita e gli orti. Il segnalino bianco rosso N° 10 del CAI indica l’inizio del sentiero che da Oggiono, passando per Ello e Figina ci porterà alla cima del Monte Crocione. Man mano che ci si alza la vista diventa stupenda. Abbiamo l’impressione di essere su un aereo e sotto di noi ci sono i tetti del paese. La spruzzatina d’acqua prevista è un divertente fuori programma perché tutti, secondo consiglio di “quelli del CAI”, portiamo nello zaino un ombrellino che serve per ripararci. Sembriamo un serpente colorato.
Superata la frazione del Castello di Oggiono già smette di piovere e il cono del campanile romanico di Ello sbuca oltre gli alberi. Sembra indicarci la direzione da tenere. Facciamo sosta nella piazzetta della chiesa di Ello. Cediamo alla curiosità ed entriamo in chiesa perché qualcuno dice che all’interno c’è un crocefisso antico con Gesù Cristo che ha i capelli veri. Soddisfatti ripartiamo quasi subito perché è prevista un’altra breve sosta poco lontano, a “I mort de la rata”. In quel luogo sorge una cappella che, come il Lazzaretto di Oggiono, ricorda i morti della peste, un’epidemia che spesso colpiva le nostre terre nei secoli scorsi, mietendo centinaia di vittime. Erano i topi a diffondere il contagio. Ecco perché si chiama così.
Ora il sentiero diventa più ripido. Non c’è vista perché si snoda nel bosco. È comunque l’occasione per riconoscere i nomi delle piante: robinie, ciliegi selvatici, faggi, castagni. Lungo la salita incrociamo un paio di ciclisti, impegnati in discesa con la loro mountain bike.
Poco prima di Figina (comune di Galbiate) passiamo davanti ad un capanno dei cacciatori. È tutto pulito, senza rovi. Sulle piante ci sono appese delle gabbie, dove si presume vengano messi gli uccelli da richiamo. È tutto molto bello, troppo bello, se non si pensa che è solo un trucco per attirare in trappola gli uccelli inermi, ed essere catturati dai cacciatori. Poco sopra il capanno, a Polgina, termina il bosco e finalmente la veduta può spaziare lontano sul belvedere. È uno dei posti migliori per godere della vista dell’intera Brianza, dei suoi laghi e sulla cerchia alpina che il sole finalmente deciso in quel momento riempie di colori e sfumature.
Le balze alle nostre spalle ci precludono invece la vista di Figina che si trova affossata in una conca e che raggiungiamo in pochi minuti. La frazione di Figina (comune di Galbiate) si adagia a quota 627 ai piedi del monte Crocione (877 m.) in una valletta ben riparata e raccolta, particolarmente adatta alle contemplazioni e alla vita monastica. Qui la sosta è obbligata.
Le vicissitudini di questo borgo rurale, ora abbastanza decadente perché è stato abbandonato dagli ultimi contadini, affondano le radici nella storia della Brianza. Seduti sui gradini della chiesetta di San Nicola e San Sigismondo ascoltiamo la storia di questo luogo, il cui nome compare già in un documento del 1107.
Contessa, o Comitissa, moglie del fu Azzone Crasso, dona al Monastero di Cluny i suoi possedimenti compresi fra il Monte di Brianza e il luogo di Figina perché sia eretta una chiesa e una “cella” (monastero) dedicata a San Nicolao venerato a Milano.
Per la prima volta si rileva in un documento il nome Brianza, che adesso identifica un vasto territorio compreso fra le provincie di Monza, Como e Lecco. Quindi si capisce l’importanza che ha questa collina che con presunzione definiamo monte. Sapere di essere seduti su questa terra così piena di storia ci ha scaldato il cuore e inzaccherato i pantaloni. Sì perché l’Abbazia venne veramente costruita, con tanto di chiostro, e tanto di frati neri, anche se tuttora sono pochi i segni visibili, su questo terreno, come dice il nome di Figina, abbastanza fangoso, argilloso, poiché si tratta del fondo di un lago prosciugato, lascito del ritiro dei ghiacciai dell’ultima glaciazione che risale a 25-50 mila anni fa.
Dopo questo excursus geologico e con in testa i frati incappucciati di nero della badia di Figina riprendiamo il cammino risalendo il crinale del Monte Crocione. Il sentiero è argilloso e fangoso. Per un lungo tratto è preferibile camminare sul bordo piuttosto che sul fondo del sentiero, disconnesso da profondi solchi lasciati dalle ruote dei mezzi agricoli. Raggiunta la sommità, anziché prendere per la cima vera e propria deviamo verso la cascina Alpe (comune di Colle Brianza). L’edificio è un gioiellino incastonato nel verde, ai piedi di un terrazzo naturale dal quale si gode un panorama incantevole. Ci sono dei tavoli nel prato, con delle panchine, che sono un invito alla sosta. Finalmente gli accompagnatori decidono di fermarsi, con nostra somma gioia. L’ultimo pezzo di salita è stato abbastanza impegnativo, quindi riposarsi sull’erba del prato di fronte alla cascina non solo è necessario, ma indispensabile, come mettere qualcosa sotto i denti. Mangiare ha la doppia funzione di ridare energia e svuotare lo zaino che diventa più leggero. I nostri genitori e “quelli del CAI”, seduti ai tavoli, pranzano allegramente e rumorosamente. La baita è organizzata per ricevere gruppi e funge da trattoria. Mentre il gestore prepara il caffè con la moka c’è il tempo per giocare a bandiera. È vero che la meta prefissata è stata raggiunta, ma non dobbiamo farci vedere dagli adulti troppo pimpanti, altrimenti quelli sono capaci di aggiungere altri chilometri di cammino.
Ripartiamo felici con il pensiero che da ora il percorso è tutto in discesa, ma non ci illudiamo perché non per questo sarà meno faticoso. Raggiungiamo l’abitato di Ravellino, poi l’oratorio di Sant’Alessandro a Cavonio (Dolzago) fino al laghetto di Cogoredo. Adesso la stanchezza affiora visibilmente. Ci sentiamo abbastanza stanchi, ma tirare i sassi nell’acqua del lago è un’attrazione troppo forte. Diamo fondo a tutte le riserve di cibo dello zaino. Le gambe sono dure, i piedi soffrono, ma Oggiono è lì, oltre la collinetta del Trescano. Ce la faremo, ma “quelli del CAI” sembra che finora abbiano fatto una passeggiatina rilassante nel parco. Decidono che occorre fare un ultimo sforzo. E allora su fino alla Ghisolfa. Bella la cascina Ghisolfa, ma ormai le gambe vanno da sole e il cervello ha in mente solo una cosa: arrivare all’oratorio di Oggiono e mangiare, seduti, un ghiacciolo. Dal Chiaré scendiamo al piano percorrendo la scalinata del Lazzaretto. Siamo sempre più stanchi e il cervello elabora che il ghiacciolo va bene di qualsiasi colore. Poi arriviamo, esausti, ma soddisfatti. In fondo è solo la prima uscita, alla faccia della sgambata. “Quelli del CAI” ci hanno fatto morire! Un ultimo appunto. I ghiaccioli al bar dell’oratorio sono finiti. Ma non fa nulla. Noi siamo dei “duri”!
Giovanni Corti “Junior”
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